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N.124 - 21/03/2007

La figura professionale del coltivatore diretto


Le disposizioni che definiscono il coltivatore diretto sono numerose, anche per i ripetuti riferimenti alla figura presenti in discipline di vario contenuto, quali i contratti agrari, il diritto di prelazione e riscatto, l’indennità di esproprio, le agevolazioni fiscali per acquisto terreni, etc.
In termini assolutamente sintetici e tralasciando normative particolari, si ricavano due definizioni fondamentali; la prima è quella dettata dal codice civile con portata generale (art. 2083) e richiede la prevalenza del lavoro interno, cioè quello del coltivatore e dei suoi familiari, su quello esterno.
La seconda è quella in base alla quale il lavoro interno può limitarsi ad un terzo del fabbisogno totale (cd. criterio del terzo). Introdotto ai fini dell’operatività della proroga legale nell’affitto dei fondi rustici, con l’art. 1 della legge n. 353 del 1949, il criterio è stato costantemente riproposto in molteplici fattispecie ed ai fini più diversi.
In ogni caso, senza considerare la disciplina previdenziale in base alla quale l’attività agricola deve essere esercitata “in modo esclusivo o prevalente”, (la legge n. 9 del 1963 precisa che per attività prevalente deve intendersi quella che impegna il coltivatore “per il maggior tempo dell’anno e che costituisce la maggior fonte di reddito”) la legislazione individua il coltivatore diretto per la necessaria esplicazione di lavoro esecutivo, e, in particolare, attraverso il raffronto tra un dato soggettivo attinente alla sua persona e ai componenti della famiglia (la capacità lavorativa), e un elemento oggettivo esterno, costituito dal fabbisogno di lavoro per l’attività in esercizio, fabbisogno di cui la capacità lavorativa deve coprire una determinata percentuale.
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Giurisprudenza
La Corte di Cassazione ha ripetutamente affrontato il tema dell’attribuzione della qualifica di coltivatore diretto e della relativa dimostrazione con riferimento alle discipline precedentemente indicate.
Per quanto riguarda il diritto di prelazione, con la decisione n. 413 del 12 gennaio 2006 la  Corte ritiene che “il possesso della qualità di coltivatore diretto, da parte di chi esercita la prelazione o il riscatto può essere provato con qualsiasi mezzo non escluse le presunzioni”.
Inoltre, afferma che nell’attuale ordinamento fondato sul principio del libero convincimento del giudice non esiste una gerarchia di efficacia delle prove, nel senso che, salvo il caso delle prove legali, esse, anche se hanno carattere indiziario, sono tutte liberamente valutabili dal giudice di merito per essere poste a fondamento del suo convincimento, il quale deve essere motivato e contenere come essenziale requisito l’immunità da vizi logici.
La Suprema Corte in precedenza ha ritenuto che la qualità di coltivatore diretto integra una circostanza di fatto che non solo non è soggetta a limitazioni probatorie, ma è anche svincolata da qualsiasi controllo o accertamento amministrativo.
In sostanza, la valutazione degli elementi di prova della qualifica di coltivatore diretto avviene in base al libero convincimento del giudice, il quale ha un ampio potere discrezionale nel valutare la loro attendibilità.
Questa verifica impone l’approfondimento con accertamenti tecnici, non potendo assurgere, secondo la giurisprudenza, a valore di piena prova le certificazioni amministrative, quali il certificato del sindaco o le certificazioni rilasciate dal “soppresso” Servizio per i contributi agricoli unificati (S.C.A.U.); l’iscrizione nell’elenco predisposto dal servizio dei contributi agricoli, pur avendo natura di atto amministrativo di accertamento costitutivo, non è dimostrativa dell’esercizio di fatto abituale dell’attività coltivatrice, essendo precostituita al solo fine di provare il diritto del soggetto ai benefici dell’assicurazione obbligatoria.
Le attestazioni del sindaco hanno valore probatorio e possono costituire elementi di convincimento in sede giurisdizionale come attribuzioni di verità e di scienza, in base a notizie previamente raccolte e controllate; le attestazioni possono fornire elementi presuntivi qualora ricevano conferma in altre circostanze, nell’ambito di una valutazione globale della conduzione dell’azienda agricola, in relazione alla durata nel tempo, agli orientamenti manifestati dal soggetto nello svolgimento dell’attività coltivatrice e al diverso valore attribuibile al lavoro prestato in altro settore.
Sulla stessa linea si pone la sentenza n. 5673/2003, con la quale la S.C. ha affermato che, ai fini dell’esercizio del riscatto, la prova della qualità di coltivatore diretto in capo al richiedente deve essere fornita in concreto, senza che certificazioni o altre attestazioni amministrative possano assurgere a valore di prova piena: ciò che rileva infatti non è il dato formale fornito dalle attestazioni citate, bensì l’effettivo esercizio dell’attività agricola con lavoro proprio e della propria famiglia. (In senso conforme, Cass. n. 14450 e n. 15805 del 2005).
In sintesi, il problema della rilevanza delle certificazioni amministrative all’interno di un giudizio in cui si debba verificare la sussistenza della qualifica di coltivatore diretto, ai fini dell’esercizio della prelazione, è risolto, in virtù dell’orientamento giurisprudenziale, nel senso di negare ad esse valore di piena prova. Le certificazioni amministrative predisposte per scopi diversi da quelli contemplati nella legislazione agraria in materia di prelazione sono prive dell’efficacia probatoria degli atti pubblici e possono costituire, se rilasciati da organi competenti, elementi di prova liberamente valutabili dal giudice, vale a dire possono integrare solo presunzioni semplici e in quanto tali confutabili dalla controparte.
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La sentenza n. 2664/2006 della Corte di Cassazione, affronta il tema della prova della qualità di coltivatore diretto in relazione alla durata del contratto agrario, ed esclude la rilevanza di certificazioni anagrafiche o altre attestazioni amministrative, ribadendo come tale qualità debba essere fornita in concreto, in relazione alle necessità colturali del fondo.
Tale decisione segue l’atteggiamento consolidato della Suprema Corte secondo il quale il soggetto che vanta la qualità di coltivatore diretto deve dimostrare un rapporto stabile, ancorché non esclusivo, tra un determinato fondo e l’attività lavorativa svolta da lui e dalla sua famiglia, nella misura di un terzo del fabbisogno lavorativo occorrente. Integrando tale rapporto una circostanza di fatto, non può essere provato mediante certificazioni amministrative.
Anche nella sentenza n. 18236 del 2003, si ribadisce che la qualità di coltivatore diretto non può essere provata attraverso l’esibizione in giudizio di certificazioni amministrative che attestino una tale qualifica, ma deve essere fornita in concreto in relazione alle necessità colturali del fondo. Il giudice di merito per l’accertamento della condizione di coltivatore diretto, può desumere elementi di convincimento dalle certificazione amministrative, ma solo quando esse trovino conferma in altre emergenze processuali.
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La giurisprudenza è arrivata a riconoscere il diritto anche al coltivatore del fondo per finalità esclusive di autoconsumo e non di mercato. Allo stesso modo è stata ammessa la possibilità di essere qualificato coltivatore diretto anche se il fondo coltivato è di modeste dimensioni poiché ciò che rileva è il requisito della proporzione obbligatoria della forza lavorativa della famiglia dell’affittuario rispetto alla necessità del fondo (Cass. n. 4520/1985).
La qualifica di coltivatore diretto, in relazione al requisito della coltivazione abituale va attribuita anche a chi “svolge altra attività lavorativa principale, poiché l’abitualità va intesa quale normale ed usuale svolgimento di lavori agricoli, in maniera tale che l’attività agricola venga svolta in modo stabile e continuativo anche se non professionale, con il lavoro proprio e dei propri familiari, traendo da tale attività un reddito ancorché secondario” (Cass. n. 759/1995; Cass. n. 10707/1996; Cass. n. 9865/1997).
Di recente è stato ribadito che “i requisiti dell’abitualità e dell’attività di coltivazione agricola non implicano necessariamente che l’attività di conduzione debba essere svolta in forma professionale e neppure in misura preponderante rispetto ad altre attività, che restano irrilevanti ai fini della sussistenza della qualità di coltivatore diretto anche se esercitate in via prevalente venendo a costituire una fonte di reddito superiore o addirittura principale, purché la forza lavoro del coltivatore diretto e della sua famiglia costituisca almeno un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo” (Cass. n. 5673/2003).
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Considerazioni
Alla luce della vigente disciplina e del consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di qualifica di coltivatore diretto e dei relativi criteri di prova si ricava una figura che lega tale qualifica al rapporto con un determinato terreno che può essere anche di modeste dimensioni e che può anche non costituire l’oggetto prevalente dell’attività lavorativa del soggetto.
Ciò significa che, se la percentuale di apporto lavorativo rispetto al fabbisogno del terreno è soddisfatta, non rilevano né la portata del reddito agricolo nella complessiva economia dell’interessato, né l’intensità della sua dedizione all’agricoltura rispetto ad impegni di altro tipo. La stessa abitualità nel lavoro agricolo, di cui parla l’art. 31 della legge 26 maggio 1965 n. 590, per individuare i destinatari dei provvedimenti (soprattutto finanziari) per lo sviluppo della proprietà coltivatrice, non viene interpretata come prevalenza rispetto alle eventuali attività extra- agricole del coltivatore.
In alcune disposizioni il criterio del terzo è stato integrato con la espressa considerazione delle macchine agricole effettivamente disponibili nel computo del fabbisogno di lavoro. Tale precisazione evidentemente amplia la sfera operativa della figura del coltivatore diretto e, con la sua applicazione, il coltivatore può provvedere all’esercizio dell’attività prevalentemente con lavoro esterno.
Le considerazioni svolte, come già evidenziato nell’incontro dei Direttori tenutosi a Napoli dal 12 al 14 c.m., servono a verificare con le Federazioni in indirizzo se determinate discipline e regimi di favore, soprattutto di natura tributaria, debbano essere mantenuti in capo alla figura del coltivatore diretto, le cui attitudini “imprenditoriali” risultano alquanto sfumate nella lettura della giurisprudenza, ovvero debbano essere indirizzati verso soggetti in possesso di differenti requisiti.
In sostanza, si ritiene opportuno valutare se alcuni parametri, di efficienza aziendale, di produttività di reddito e di competenze professionali, da comprovare anche “contabilmente”, non debbano essere maggiormente utilizzati per l’individuazione del soggetto imprenditoriale intorno al quale mantenere e costruire i regimi di sostegno, in relazione, del resto, alla scelta operata dal decreto legislativo n. 228 del 2001, sull’orientamento del settore agricolo, di legare la qualificazione delle attività agricole al c.d. criterio biologico.
La riscrittura della figura dell’imprenditore agricolo ha consentito di superare la visione “isolazionistica” presente nell’originaria codificazione civile che vedeva nell’attività agricola un momento unico, circoscritto nei confini logici e fisici del fondo.
L’impresa agricola, attualmente, può rilevare una multifunzionalità economica, ambientale e sociale che si basa sull’utilizzazione non solo del capitale fondiario ma anche delle attrezzature e delle risorse in funzione della fornitura di beni o di servizi.
L’ampliamento dell’area coperta dalla agrarietà e l’articolazione della attività aziendale in direzione della multifunzionalità evidenziano la consapevole scelta del legislatore di valorizzare il rapporto tra l’impresa e la complessiva realtà territoriale di cui fa parte.
L’affermazione dell’impresa agricola quale “impresa di relazione” ha fatto venir meno la centralità dell’elemento fondiario e conseguentemente delle definizioni sinora esaminate basate sul rapporto con un determinato terreno.
Cordiali saluti.